Articoli e recensioni.
Si pensa sempre
che ciò che viene strappato al tempo
si trovi davanti alla macchina fotografica.
Ma non è del tutto vero.
Fotografare è un atto bidirezionale:
in avanti e all’indietro.
Certo, si procede anche “all’indietro”.
[…] Una fotografia è sempre un’immagine duplice:
mostra il suo oggetto
e – più o meno visibile –
“dietro”, il “controscatto”:
l’immagine di colui che fotografa al momento della ripresa.
Wim Wenders*
Parlare di fotografia porta con sé la semantica della soggettività declinata in tutte le sue possibilità. La più evidente, quella più sovversiva ed inquietante, è quella della alterità. Sono condannato a guardarmi attraverso lo sguardo arbitrario di chi mi fotografa. Non solo, ma anche a tentare di riconoscermi, di trovare un “io” in quel “me”, una familiarità con quella immagine che parla di me, dice di me, ma che mi trova spaesato, distante, per via dell’intenzionalità di chi mi ha costruito in immagine. Come se io non fossi io, non mi assomigliassi davvero, e quella grammatica di senso non fosse mia fino in fondo. Il ritratto fotografico parla una lingua che il soggetto stenta a comprendere, nella parzialità di un gesto, un’espressione, un tempo che diventa immortale: io che mi guardo cerco la verità di chi sono. E’ un’operazione, quella della fotografia, che ha a che fare con qualcosa che porta all’ anima, come ben intuivano gli Indiani d’ America che la temevano, pena la perdita della stessa. Fabio Rinaldi la conosce e la usa bene, questa arte – no, non di sola tecnica, trattasi – e crea una dialettica viva tra la sua soggettività di fotografo e l’oggettività di chi ritrae.
Forty-one shades of portrait è una galleria fisiognomica che raccoglie ed espande il profondo legame tra l’immagine ed il nostro mondo interiore, tra il dicibile e l’indicibile, il visibile e il non visibile. La struttura della Mostra si articola in una prima parte attraversata da una serie di ritratti di persone significative nel panorama culturale del Friuli Venezia Giulia, colti quasi in una prossimità domestica, famigliare. Nel loro habitat naturale e necessario. La seconda sezione di questo viaggio per immagini, in forma triadica, si articola ne L’ altra faccia del vero, Fugit inexorabile tempus e Sembianze, l’ultimo.
“Quanto la nostra conoscenza è in grado di confermare la giusta realtà delle cose. Quanto la logica influisce sull’apparenza delle cose”, dice Rinaldi ed è il plateau teoretico che attraversa l’artista. Restiamo sospesi tra visi pietrificati dall’ argilla e maschere, tramite verso il tragico, ma anche con la nostra essenza di umanità, vista l’etimologia stessa della parola persona: per attraverso sonar risuonare. Così era chiamata in antichità la maschera indossata dagli attori, che oltre a coprire il volto fungeva anche da amplificatore per la voce.
In Fugit inexorabile tempus abita l’aporia dell’immagine fotografica: “medium bizzarro, nuova forma di allucinazione: falsa a livello della percezione, vera a livello del tempo”, per dirla con Roland Barthes. Ma la verità va cercata da altre parti, non in quell’ attimo fermato e mortificato, e perciò reso immortale. Altrove, nei dettagli, lì dove non è evidente.
Con Sembianze Rinaldi entra nell’ immaginario simbolico di chi ritrae, cercandone il doppio, l’archetipo. L’ animale che ci si porta dentro, a sua – e spesso anche a nostra – insaputa. Fotografia e maieutica diventano allora un passo figurato, un salto nel vuoto, alla ricerca di un alter ego nascosto, di quella crepa – tra chi siamo e chi non sappiamo di essere – dove l’obiettivo arriva prima, arriva meglio. Senza paura.
Cristina Bonadei
*Il passo di Wim Wenders citato è tratto da Claudio Marra, Le idee della fotografia. La riflessione teorica dagli anni sessanta a oggi, Bruno Mondadori, Pavia 2001, pp. 316-317.